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Nell'aprile 2020 è uscito questo mio articolo - tradotto in lingua rumena da Claudia Albu - nello storico e prestigioso bisettimanale culturale rumeno TRIBUNA. Nata nel 1800 è ora diretta da Mircea Arman, ed è la rivista più venduta in Romania, presente anche in Ungheria, Spagna e Germania. Avevo scritto l'articolo per Tribuna per dare testimonianza diretta di ciò che stava succedendo in Italia nel marzo 2020, in modo che i lettori rumeni potessero capire meglio una situazione che da loro ancora non si era vissuta.

Non sono una giornalista, ma da sempre sia col teatro che con la poesia voglio dare voce a chi non ce l'ha e voglio testimoniare ciò che vedo. 

Sia io che la redazione abbiamo ricevuto molti commenti nei mesi seguenti la pubblicazione, commenti per lo più di persone grate, perché si erano fatte un'idea più precisa e, allo stesso tempo, preoccupate per gli italiani e il nostro paese. 

Su richiesta di molti pubblico qui sotto l'articolo nella sua forma originale del marzo 2020.

Martina, la mia cara amica infermiera in ospedale pubblico nel bergamasco, dopo che era stata pubblicata su Tribuna la poesia che le avevo dedicato (la trovate in fondo all'articolo), mi disse che - per pura fatalità - un paziente in terapia intensiva le aveva confidato di esserle grato per la sua presenza costante accanto a lui, perché "qui, sa, si perdono tutte le traiettorie". Proprio l'immagine a cui avevo pensato anch'io nella mia poesia. Questo non per dire che sono un'indovina, ma per dare il senso di quello che abbiamo provato in molti in quella primavera del 2020, quando non sapevamo cosa stesse succedendo, quanto sarebbe durato, quando molti di noi erano in ospedale o avevano dei cari ricoverati che non potevano vedere, quando coppie erano a distanza di chilometri e non potevano riunirsi. Quando tanti di noi (me inclusa) hanno perso il lavoro dalla mattina alla sera, da quel fatidico sabato 22 febbraio in cui iniziò lo stato di emergenza, facendo perdere totalmente lo stipendio, perché non dipendenti, e per giunta senza aiuto statale.

Avevamo perso le traiettorie. 

Ecco perché lo pubblico qui, senza modifiche, oggi nel mese di maggio 2022: per rivederci, per ritrovarci. 

Ringrazio Mircea Arman e Ani Bradea per averlo pubblicato subito, e anche per aver voluto pubblicare 2 mie poesie a tema, scritte in quei giorni. Ringrazio Claudia Albu per la pronta traduzione, tutti i cittadini rumeni che mi hanno scritto parole di stima, apprezzamento e affetto verso la sottoscritta e i miei connazionali. Soprattutto ringrazio le amiche che mi hanno dato la loro testimonianza. 

PS. Leggetelo, condividetelo, e - se volete pubblicarne parte - vi chiedo gentilmente di citarmi e mettere questo link, grazie. 

 

 

 

 

PANDAEMONIUM

Dalle 11.40 alle 15.40 ogni giorno il sole si stende beato sui 7 metri del terrazzino del mio appartamento a Padova (Veneto, Italia del nord). Da settimane mi piazzo in quella fascia oraria sulla mia sdraio, quarantena al sole, è rimasto solo quello, a noi fortunati che non siamo né intubati in un ospedale, né stiamo lavorando in reparto. È disarmante – come in uno scherzo beffardo di bambini - che ci siano una gran fetta della popolazione a casa a non far niente e un’altra a massacrarsi di lavoro, anche 12 ore al giorno con pazienti attaccati a tubi di ossigeno – alcuni anche giovani e senza patologie apparenti - e morti che escono a centinaia su camion dell’esercito verso altre città, perché a Bergamo i cimiteri non hanno più posto. 
Dal mio terrazzino sento solo l’amore primaverile di 2 tortore e il merlo che inclina il musetto e cinguetta chiedendomi dove siamo finiti tutti. 
Qualche volta a mezzogiorno, da una finestra, esce a volume alto l’inno d’Italia. Mi immagino che questa persona - come il campanaro di un tempo, fiero del suo ruolo ufficiale - scandisca l’ora centrale del giorno dando la carica alla popolazione, come il soldato che suona il corno in battaglia. 
Poi ci sono quelli che ai balconi appendono bandiere d’Italia e i disegni “tutto andrà bene”. 
Dal terrazzino davanti al mio c’è una coppia di greci arrivata poco prima del coronavirus. Lei parla 20 ore su 24 ad alto volume ogni giorno, lui sta sempre muto. Secondo me solo la quarantena li sta tenendo uniti. 
I miei vicini di casa sardi fumano e prendono telefonate sul loro terrazzino. Rimpiangono la Sardegna, un giardino con vista mare. Ora hanno solo la vista su questa scrittrice che tenta di capire cosa le stia dicendo il merlo. Lui, alto grosso e tutto peloso all’inverosimile, parla con il vocione da basso di opera lirica che - non trovando altri rumori che lo ostacolino - rimbomba per tutto il quartiere. “Mandami il mirto che l’ho finito! Come non puoi andare in posta? Vacci, il mirto mi è essenziale! E mandami anche una bottiglia di limoncello, quello che fai te. Cosa?!? Come sarebbe a dire che l’hai bevuto tutto con Giovanni?” 
Grandi drammi sui balconi d’Italia. 
Mi sporgo e mi giro a sinistra, c’è Rosella, la sarta in pensione, che nella sua tuta in pile rosa shocking annaffia le piante appese sulla ringhiera del terrazzino. “Ciao Serena! Hai visto che belli i miei fiori?” “Sì, complimenti! Mi raccomando, Rosella, resistere, eh!” “Sì, sì, resisto. Ho messo su qualche patata in pentola, che poi mi faccio gli gnocchi. Mi tiro su!”
Rosella è in tuta, perché noi relegati a casa ci dividiamo in 2 categorie: quelli perennemente in pigiama, dove la notte non differisce più dal giorno, e quelli in tuta. Io, mantenendo un certo contegno, ho la tuta della domenica (“della festa” dicevano le nonne un tempo!) e quella di tutti i giorni, non che cambi qualcosa nella mia settimana, ma così per darmi un tono. Ho fatto questa cruciale domanda a Giorgia Monti, la mia cara amica poeta e mi ha risposto col suo tipico cipiglio di Romagna: “Io resisto alla pigrizia! Mi sveglio al mattino, mi tolgo il pigiama e mi metto la tuta, come se fosse una domenica normale a casa dal lavoro”. 
Come vedete le Poete sostengono la corrente filosofica della tuta! Questa notizia era fondamentale, ve la dovevo dare!
Gli Italiani in quarantena si dividono in altre 2 categorie: quelli che mangiano e basta e vivono tra letto e divano, e quelli che si inventano bizzarri modi per fare attività motoria. Come il mio amico Graziano che ha tirato fuori la vecchia cyclette anni ’80, impolverata e sbiadita, e l’ha posizionata in giardino tra gli ulivi, così pedala e prende il sole, immaginando di correre su per i colli di Roma. Poi quelle che fanno 40 minuti ogni giorno di esercizi gambe\braccia\spalle\collo che appena finisce la quarantena sono pronte per le olimpiadi del 2021.
E poi ci sono io, che quasi ogni giorno mi faccio la cioccolata calda, come neanche in inverno. Pure con i 25 gradi delle scorse settimane! Latte e cioccolato, 2 cose altamente consolatorie!
Con la tazza in mano incrocio Giovanna, pensionata, sul suo balcone che stende: “Serena, ma cosa dici di ‘sta situazione?” – “Giovanna, lo sai vero che non puoi andare a far la spesa ogni giorno, e solo nel negozio più vicino a casa?”. Lei sbianca in viso, sbarra gli occhi, non respira per 3 lunghi secondi e poi emette il suo verdetto definitivo:  “Moriremo tutti”.
Amen e così sia.
Nel frattempo – tramite Facebook – molte persone si sono date appuntamento ad un’ora esatta e hanno applaudito dai balconi tutto il personale medico e paramedico. Altre – sempre dai balconi – hanno cantato e suonato tamburi, flauti, trombe, pianola e anche i coperchi delle pentole. 
Insomma, in Italia su balconi e terrazzini si svolge grande attività ultimamente!
Il mio occhio cade su facebook, dove va in corso l’ultima diatriba dei poeti e degli autori teatrali italiani “Non si deve scrivere testi sul coronavirus! Non si devono scrivere poesie su questo periodo!”. Ma perché? Mi chiedo io. Perché no? Si chiedono tanti altri autori e autrici come me. Un Poeta, una scrittrice scrive di tutto, anche e soprattutto del presente, per dare conforto, per smuovere dubbi, per far riflettere. Perché questa chiusura a priori, questo disprezzo nei confronti di chi – tanti – stanno scrivendo letteratura su questo tempo sciagurato? 
Per fortuna vengo salvata da Pierina, signora 80enne, uscita nel suo giardino per potare il grande ulivo. “Ciao Serena, che tempi! Neanche in guerra eravamo così messi male. Almeno c’erano le sirene che ti avvertivano delle bombe, facevi la tua vita normalmente, poi quando suonavano le sirene correvi a nasconderti. Ma adesso? Come lo vediamo il nemico? Quando sappiamo se attacca? E dove ci ripariamo?”. Io rimango muta e lei raccoglie i rami piegando la schiena come neanche una ventenne. 
Nel frattempo sui social network gli italiani – che già in tempi normali sono tutti allenatori di calcio – ora si scoprono tutti virologi. Chi ha la sua teoria su come si è diffuso il virus (colpa degli ufo, dei soliti americani, degli economisti tedeschi invidiosi, colpa delle zuppe cinesi ecc…), chi fa mascherine in casa come le mutande di lana che faceva la nonna (con la stessa protezione di queste), chi indossa una bandana fino al naso che sembra il bandito dell’800 durante la corsa all’oro, chi porta il cane a far pipì anche se il cane non ha più una goccia nella vescica a forza di portarlo fuori con la scusa di sgranchirsi le gambe. 
In tutto questo pandaemonium, quando la mia cara amica Ani mi ha chiesto di descrivere la situazione in Italia – che va avanti da poco dopo la metà di febbraio - ho pensato a quel che faccio sempre con i miei testi teatrali: dare voce a chi non ce l’ha. E così, in tutto questo traffico di attività su balconi, ho chiamato amiche che abitano nelle 3 regioni più colpite dall’emergenza (Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto) e svolgono lavori ad alto rischio.  
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Barbara – addetta alle pulizie in uffici comunali, Forlì (Emilia-Romagna)

In questi giorni, oltre alla solita pulizia ordinaria, è richiesta la sanificazione di uffici pubblici. Ho fatto quella del palazzo dell’INPS, 6 piani, eravamo in 12, chi con la mascherina chi no, a volte la toglievo perché non respiravo e sudavo tanto. Ognuno di noi aveva un ufficio sgomberato dal personale, e con acqua e varechina abbiamo pulito superfici, tastiere, schermi, scrivanie, poltrone, finestre, lampade, maniglie, ascensori, telefoni per 6 di ore di fila. Per le pulizie ordinarie non abbiamo obbligo di mascherina, ma solo di guanti. E’ triste ora, perché ti saluti da lontano, anche tra noi colleghi, quando ci cambiamo uno sta fuori, si entra a turno in camerino per cambiarci, ti parli a distanza, fai fatica a relazionarti, c’è chi è preoccupato per il non lavoro, la paga, chi spera negli aiuti sociali se ci sono o no da parte del governo, c’è da pagare l’affitto e il mutuo, come si fa? Chi abita da solo, chi ha il marito che non lavora. 
Dagli uffici che pulisco vedo le piazze, hanno messo le transenne davanti alle panchine, anche se ultimamente in giro non c’è nessuno, i bar sono chiusi, i parchi recintati. Il mio pensiero è per dopo, tutte queste ditte chiuse e negozi piccoli che già fanno fatica, poi come faranno? Tutte queste difficoltà si ripercuoteranno su tutti, speriamo di darci una mano. 
Quando sono a casa pulisco di più adesso, leggo, faccio giardinaggio, sistemo le cose che non faccio di solito. E sto attenta. Anche quando bevo l’acqua dalla bottiglia, mi tolgo i guanti, bevo, la appoggio, lavo la bottiglia, mi rilavo le mani, non sono ansiosa, ma ci penso spesso. Ho messo l’alcol nel dispenser del sapone per mani, perché disinfetta, giusto per stare tranquilla. Giovanni, mio marito, fa da mangiare, fa la spesa, pulisce le tapparelle, e dopo, una volta che abbiamo pulito tutto, cosa faremo a casa? 
Ho già potato un susino e il cespuglio, tolto erbaccia, sistemato la salvia che è sempre enorme.  
Sabato scorso abbiamo fatto l’aperitivo, tutti noi 5, l’altra domenica il barbecue e il caffè, due risate in giardino e anche due litigi, perché stare in casa tutti assieme è dura. Abbiamo messo sul tavolo in giardino coca cola, vino, frittata con cavolo, insalata con pomodorini, mais e capperi, uova strapazzate con pancetta, focaccia fatta da me, salami, formaggio e olive. Dobbiamo tirarci su, no?
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Emma - operatrice sociosanitaria in piccola struttura privata, Brescia (Lombardia)

Noi non siamo eroi, non ci sentiamo gratificati da 12 ore in reparto.  Noi abbiamo paura. Ci muoiono i pazienti di coronavirus sotto il naso. Ci dicono che anche se abbiamo la faccia a 15 cm dal paziente positivo, basta che abbiamo una mascherina chirurgica e siamo al sicuro, e questo non ci rende eroi. Ci fanno contratti a tempo determinato, così possiamo eventualmente decidere di interrompere il lavoro prima della scadenza, solo per giusta causa. Mancanza di tamponi, morti sospette, mancata quarantena non sono considerate giusta causa ai tempi del covid19. E quindi, se abbiamo paura e volessimo recedere da un contratto di lavoro che mette a rischio la nostra vita, dovremmo solo farci licenziare, con tutte le conseguenze del caso. E non siamo eroi. Siamo maltrattati, sfruttati, mandati al macello, senza nemmeno la gratificazione economica. E se abbiamo paura e non vogliamo morire, e vorremmo evitare 12 ore a turno, esposti al rischio, i superiori ci danno dei codardi e dei vili. Fatelo voi. La mia ultima paga netta è di 1.037 euro in Italia oggi. Chi di voi per quella cifra e per la fama di eroe vorrebbe lavorare in un reparto privato oggi?
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Roberta – Portalettere, Verona (Veneto)

È morto un altro postino.
Ho letto commenti di persone inferocite che ci insultavano perché non avevano il pacco Amazon con la cover del cellulare. Persone che dicono che dovremmo vergognarci, che meritiamo il licenziamento.
E intanto muore un altro postino.
Sono 3 i portalettere a Bergamo, i primi morti sul lavoro per coronavirus, fuori dall’ambito sanitario. L’ultimo si è ammalato all’improvviso, ha portato lettere fino all’ultimo. Tanti postini hanno tuttora la febbre alta. Noi siamo a contatto con la gente, possiamo prenderci il virus facilmente e trasmetterlo rapidamente.  Siamo considerati “servizio essenziale.” e questo mi fa rabbia, vorrei solo che mi spiegassero cosa vuol dire “essenziale”! Dovrebbero chiudere tutte le poste perché ci sono cose che la gente può non fare, devono stare tutti a casa per la tutela nostra e loro!
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Martina - infermiera in ospedale pubblico, provincia di Bergamo (Lombardia)

Pensieri, muscoli, lacrime, tensione, mancanza: tutto è risucchiato dal turbine surreale. 
Ogni giorno cambia il pensiero primario, oggi ho paura perché se stanotte non ho preso il virus vuol dire che sono stata graziata. 
Imparo quello che non so, trovo quello che non ho mai avuto, i nonni sedati che si tolgono tutto e mi scambiano per la moglie, mi sono scritta il nome sulla visiera del cappellino così almeno sanno come mi chiamo.  È terribile sentirsi chiedere: “C’è posto per me? Sono uno di quelli destinati a morire, Martina?”
Nel frattempo litigo con i caschi e le attrezzature – che vedo per la prima volta -  tengo a mente chi è da ventilare e chi no. Io, io che vengo da decenni di reparto di pediatria, io, trasferita d’urgenza qui a mettere cannule verdi nelle vene di vecchietti. Fatico a vedere le persone che si riempiono di ossigeno da tubi e so che domani non le troverò. 
Ci sono turni di lavoro nei quali in un solo reparto saluto per sempre 6 persone.
Fatico ad accogliere la domanda “Martina, puoi dare un bacio al telefono ai miei nipoti per me? Ma poi… poi mi sveglierò?”
E’ una tragedia lenta e fulminea. E ladra! Ruba la dignità.
E’ un momento che ti entra dentro e toglie il fiato. E senza fiato lavori. E non bevi e non vai in bagno, perché togliere le protezioni che si indossano fa paura. Lo ammetto, fa paura. 
Qui non c’è più posto, occupati anche tutti i letti che avevano allestito in sale operatorie e negli ambulatori, 5 piani tutti occupati dai positivi al covid-19. Non temo il lavoro né la fatica né lo spostamento da pediatria, bensì rapportarmi con la morte per assenza di possibilità di cura per mancanza di materiali e posti. 
Poi sento le mie colleghe che hanno figli e temono di portare il virus a casa, per questo molte hanno spedito la famiglia fuori o sono andate via loro. Ciò le rende molto tristi perché non riescono a star dietro ai figli e sembra di abbandonarli a loro stessi. 
Questo virus è mille volte peggio di quel che pensavo all’inizio.
Io non ho figli, nel compenso sono diventata ipocondriaca. Ho mal di gola e cerco subito le placche in gola, sento di avere la febbre, la misuro ma non ce l’ho, tossisco e mi dico che ho preso freddo uscendo con i capelli bagnati. In verità mi cago sotto – scrivi pure così, Serena – mi cago sotto dalla paura.
Ti leggo un messaggio arrivato da una collega del 118 (numero di emergenza): “Ieri ho lavorato 12 ore di fila, le telefonate sempre in aumento, tutti chiedono dei loro cari in terapia intensiva e nessuna collega ha la possibilità di accesso. Le persone cominciano a litigare e farsi male per la dura convivenza forzata, si riempiono di farmaci e vanno in stato di incoscienza. Nei giardini di casa tutti fanno giardinaggio, anche gli ultra novantenni, nonostante sia proibito dal governo, cadono e si rompono dita, mani, piedi. Teniamo duro, ne usciremo tutte forti e racconteremo ai nostri nipoti come faceva mia nonna con la guerra”
E’ vero, non è come prima, è un momento che lascia il segno. A volte piango e non riesco a far capire cosa sento. 
Quando sono a casa noto che pulisco di più, perché mi dico che se vengo ricoverata non voglio lasciare le mutande sporche in lavatrice o le ragnatele sui muri!
Non riesco a leggere, quando sono tranquilla fisso il vuoto e ripenso alle parole dei pazienti, al momento in cui controllo le cartelle per vedere se qualcuno è stato trasferito o morto. Non so se potessi uscire di casa cosa farei. Andrei fuori a respirare. Ma adesso sto bene a casa, ho paura a uscire dal mio guscio. 
Ho paura perché non ci sono armi, c’è morte ingiusta ovunque. 
Fatico molto a parlare della situazione. Ne parlo con pochissime persone. A te lo dico, perché ti stimo da tanti anni, mi piace come scrivi e mi fai ridere anche in questi momenti atroci. Mi hai fatto ridere con la descrizione delle attività degli italiani sui balconi. Anch’io ho suonato la chitarra sul mio terrazzo, mi ha fatto bene. Sentivo una fisarmonica, chitarre, batteria, flauti e trombe.  
Spero che queste mie parole servano anche ai lettori di Tribuna. Mi fa rabbia che tanta gente ancora non capisca, vorrei portarli in ospedale a vedere la situazione surreale, l’inferno dantesco. L’essere stremati deriva dal lavoro in condizioni precarie, avvicinarsi al paziente richiede tanto tempo di vestizione e svestizione ogni volta. Questo comporta la scelta di raggruppare il più possibile le cose da fare, ma di conseguenza anche meno contatti personali con i pazienti, che, quando sono vigili, sono soli con il rumore del casco per la ventilazione e una postura obbligata. Il nostro essere stremati aumenta nel momento in cui vediamo gli sforzi vanificati dal comportamento esterno.
Molti fanno i bravi, ma troppi non seguono le regole di precauzione. Dormire separata, non stare vicini sul divano, non baciare la persona che ami o i figli per paura di trasmettere il virus, e poi vedere che c’è gente irresponsabile che va da amici a mangiare la pizza, fa rabbia perché velocizza la tragedia. 
È tremendo tenere la mano e cercare di placare l’ansia di chi è cosciente e chiede se sta morendo, e sapere che tutto questo non finirà fino a quando tutti fuori non faranno i bravi.
Chi è vigile e cosciente usa il cellulare per vedere le immagini e mandare messaggi, ma non hanno voce, anche il minimo movimento li mette in difficoltà, per chi può bere anche un sorso d’acqua è una impresa dalla quale si riprendono lentamente, perché interrompono la ventilazione. 
Ci chiamano eroi. Sono eroe se mi immolo, ma io ho scelto di fare questo lavoro e non mi tiro indietro. Abbiate però rispetto della vita dei pazienti e di chi ci lavora. Ho apprezzato molto che tu abbia dato voce agli OSS (operatori socio sanitari), categoria indispensabile e a rischio. La solidarietà tra colleghi è enorme, anche tra chi non si è mai visto prima, ciò ci rende forti e ci si sostiene a vicenda. Il governo ha emesso un bando per cercare 300 medici volontari, senza stipendio, solo rimborso spese, hanno risposto in 8000. 8 mila. Tra cui dottori e dottoresse in pensione. Ecco, ancora una volta io non cambierei il mio lavoro per nulla al mondo.
Non temo la morte, temo il non riuscire a dare dignità alla persona, non poterla accompagnare nel modo che merita. E oggi questo è molto difficile. In più c’è il dopo, perché per ogni persona che ci lascia c’è una famiglia, il rischio che qualcuno di loro sia stato contagiato, ma c’è anche un vuoto difficile da colmare perché manca il saluto, lo stare con il proprio caro durante il decesso, il che aumenta la difficoltà dell’elaborazione del lutto. 
Possiamo cantare l’Inno d’Italia o di Romania, difendere la patria da chi la denigra, decantare le bellezze, ma ora dobbiamo salvarci tutti noi, perché non è il personale medico e paramedico che salva l’Italia e la Romania, ma tutti quelli che collaborano a fermare questo virus. 
La Cina ce l’ha fatta. Siamo così tonti noi da non riuscire?
E poi ricordiamoci che le cose belle ci sono, anche se sembrano piccole ed egoiste per reggere il confronto con quel che succede. Però ci sono e non le perdo di vista, piccole ancore per restare a galla. E domani può essere meglio di ieri e oggi, quindi avanti tutta!  
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Con il toccante e potente messaggio di Martina, io, cari lettori e lettrici di Tribuna, vi saluto e vi auguro ottima salute. Colgo l’occasione per ringraziare tutti gli amici e amiche rumeni che in questo mese mi hanno inondato di messaggi d’affetto, in particolar modo Ani Bradea, Mircea Arman, Claudia Albu (che ringrazio per il loro lavoro per Tribuna), Maria Pal, Ion Cristofor, Stefan Damian, Adrian Lesenciuc. 
Vi lascio con 2 delle poesie che sto scrivendo dalla quarantena.

La Poesia aiuta sempre, sia chi la scrive che chi la legge.

Come dice Lawrence Ferlinghetti, 101 anni lo scorso 24 marzo : “La poesia è l’ultimo rifugio dell’umanità nei tempi bui”

Padova, 26 marzo 2020

 

 

 

 

IV GIORNO DI QUARANTENA

 

ad Ani Bradea, 
12 marzo 2020

 

 

il rimbombo di campana
ferale
alle 7 di mattina
si schianta
su viventi e moribondi murati
lontani miglia e acqua

nessuno si muove
nessuno respira

sento solo il cuore veloce della vicina

vorrei uscire
dai miei pensieri
dove lei scrive lettere al boia

chiede di avere più baci e passi meno pesanti
e tornare a sedersi – presto
sulle colline di Romagna

qui, sui campi pettinati
dove roseti rossi – imperterriti
abbracciano la vite
d’armonia

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IX GIORNO DI QUARANTENA 

 

a Martina,
17 marzo 2020

 


mi è entrato un Merlo nell’occhio
in fuga da Bergamo

troppo stridore di bare notturne
troppo fumo di forni crematori 
sballano traiettorie di volo

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